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venerdì 29 gennaio 2016

Se non si agisce in fretta l'appennino bolognese rischia di morire


L'autunno/inverno 2015/16 rischia di diventare uno dei peggiori di sempre per l'appennino bolognese. E non tanto per le anomalie climatiche, bensì per i problemi legati al mondo del lavoro: da Sasso Marconi a Gaggio Montano, passando per Roncobilaccio e Porretta, è una debacle. 
Prima la SAECO ha comunicato di voler licenziare 243 dipendenti, quindi l'apertura della variante di valico che, se da un lato ha finalmente offerto  una via di comunicazione su gomma veloce e moderna tra nord e sud Italia, dall'altro ha messo in ginocchio gliautogrill e i ristoranti/alberghi lungo il vecchio tratto della A1, con il rischio della perdita di oltre 100 posti di lavoro.
Sono poi di questi giorni le notizie relative i licenziamenti annunciati alla Manz di Sasso Marconi, il contratto di solidarietà all'Arcotronics di Pontecchio Marconi e la FIAC venduta ad una multinazionale straniera. Non tutte notizie di per sè negative ma che vanno monitorate con attenzione.


Una situazione esplosiva in un contesto già fortemente in difficoltà, sia per le peculiarietà del territorio, sia per la crisi di alcuni comparti produttivi, in primis quello metalmeccanico e del suo indotto.
Da parte delle istituzioni, a partire dalla Regione Emilia-Romagna e anche del ministero dello sviluppo economico, c'è stato fin da subito impegno e interesse, tant'è che sono stati aperti tavoli di crisi, cui hanno partecipato enti locali, sindacati ed aziende. Ma non sempre, soprattutto queste ultime, hanno avuto un atteggiamento conciliante. Anzi, come nel caso SAECO, vi è stato un pesante braccio di ferro dove pare stia prevalendo la proprietà, ovvero la multinazionale olandese Philips, che non ha receduto d'un passo rispetto i licenziamenti e la delocalizzazione in Romania della produzione di macchine per il caffè. Non c'è soltanto la crisi Saeco: più di seimila persone a Bologna hanno il loro posto di lavoro appeso ad un filo. Si tratta soprattutto di persone in mobilità che entro la fine dell'anno potrebbero ritrovarsi iscritte nelle liste di disoccupazione. Lo denuncia la Cgil, che prevede un ritorno al segno più della disoccupazione per la fine del 2016: "In base ai dati del nostro osservatorio, che sono legati agli accordi sindacali fatti direttamente con le imprese, a Bologna e provincia ci sono più di seimila persone tra mobilità e cassa integrazione", spiega il segretario della Camera del lavoro Maurizio Lunghi a La Repubblica Bologna. "Questo significa che a fine anno rischiamo di vedere risalire la disoccupazione oltre la soglia del 7%, visto anche che questi lavoratori non potranno più utilizzare gli ammortizzatori sociali come prima a causa della modifica delle norme". I dati completi saranno resi noti a marzo, quando il sindacato li presenterà di fronte ad imprese ed istituzioni.
Già nelle scorse settimane, Massimo Gnudi (vicesindaco metropolitano con delega allo sviluppo dell'Appennino e sindaco di Vergato) ha espresso la propria preoccupazione e assicurato il suo impegno per attivare azioni congiunte a salvaguardia dell'occupazione e degli insediamenti produttivi sul territorio dell'Appennino: “La crisi Saeco, in questo difficilissimo momento sta portando all'attenzione di tutti che la fondamentale vocazione industriale dell'Appennino bolognese non può essere dimenticata. In questo senso, la Città metropolitana ha già posto fortemente all'attenzione della Regione Emilia-Romagna la necessità di definire modalità e strumenti di gestione attiva dei processi di trasformazione industriale, in vista del programma regionale per la montagna che verrà condiviso nel prossimo mese di gennaio
Le istituzioni hanno dichiarato di voler agire su più fronti: sostegno alle singole situazioni di criticità e contemporaneamente impostazione delle politiche di sviluppo dell'Appennino bolognese, anche individuando nel turismo sostenibile (dove sono presenti già alcune significative esperienze, tra cui la via degli dei che passa per Sasso Marconi) una delle piste di lavoro, su cui sono già stati compiuti importanti passi.
C'è da sperare che i finanziamenti cospicui e le proposte di questi giorni alla Conferenza sulla montagna promossa dalla Regione, trovino attuazione in fretta poichè il rischio di veder morire una parte significativa della provincia di Bologna è elevata.

mercoledì 20 gennaio 2016

Sfrappole versus crostoli

Il prossimo 9 febbraio sarà carnevale. Una festa molto amata sia dai bambini che da molti adulti. 
Essendo goloso e amante dal mangiare bene, ma soprattutto del mangiare all'emiliana, quando passo davanti a un forno (di quelli che sanno fare le cose buone!) non posso esimermi dall’entrare e, se siamo tra gennaio e febbraio, acquistare un vassoio di crostoli da portare a casa per condividerlo coi familiari. Così ho fatto la settimana scorsa. Rientrato a casa, a seguito di una trasferta nel suolo natio, dopo cena ho portato in tavola il tipico dolce di carnevale: “Oggi a Ferrara ho preso i crostoli”.

Nella foto sopra i crostoli acquistati al forno Orsatti di via Garibaldi a Ferrara

La prole mi ha guardato con fare interrogativo finchè non m’ha visto aprire il pacchetto. Così la mamma, da brava bolognese, ha puntualizzato: “Bimbi dovete capire il papà se ogni tanto parla ferrarese. Queste sono simili alle sfrappole ma non buone come le nostre. Loro [intesi i ferraresi, NdA] non le sanno fare”. Come se il copyright di questo dolce di carnevale fosse esclusivamente felsineo. In realtà le sfrappole o crostoli sono presenti un po’ tutta Italia, anche se ognuno le declina nel proprio idioma: bugie (Genova, Torino, Imperia), cenci (Toscana), cròstoli (Ferrara, Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia), galàni (Venezia, Padova), sfrappole (Bologna, Modena) chiacchiere (Romagna), cioffe (Sulmona, Centro Abruzzo), sfrappe (Marche).


Nella foto sopra sfrappole nella bacheca del forno Pallotti di via Borgo S. Pietro a Bologna

Riflettendoci la consorte ha le sue ragioni poiché l’Italia è il Paese dei campanili e quindi, anche se Ferrara e Bologna distano appena 50 km, si tendono spesso a rimarcare le differenze. Senza contare che pure all’interno di una stessa comunità, nella preparazione di una pietanza o d'un dolce, si possono riscontrare modifiche anche significative che solitamente arricchiscono e danno valore aggiunto al prodotto. 
Ad esempio, molte zdaure ritengono che le sfrappole si debbano cuocere rigorosamente nello strutto, giusto per dare quel tocco di 'leggerezza' in più. Diversamente, nelle ricette che si trovano online o su pubblicazioni cartacee, viene consigliata la cottura nell’olio di semi. Qualcun'altro suggerisce di usare l’olio d’oliva, più digeribile e salubre, ma si rischia che il sapore dell'olio prevalga sul resto. Molti forni, invece, usano il vituperato olio di palma ritenuto il male assoluto dagli ambientalisti.
Un'altra differenza importante, che non avevo notato quando abitavo nel ferrarese, è che qui a Sasso molte zdaure bagnano le sfrappole con l'Alkermes un liquore dal colore rosso che solitamente si usa per le pesche dolci o per la bagna di dolci farciti, ad esempio la zuppa inglese.
C'è poi la questione dello spessore della sfoglia: i bolognesi la fanno molto sottile, mentre a Ferrara usualmente è più spessa, il che porta a un maggiore assorbimento del liquido in cui si cuociono i crostoli. 
E anche sulla forma, come si evince dalle foto presenti nel post, ci sono fior di diatribe: rettangolari, a fiocco, col taglio in mezzo?
Infine la questione dello zucchero sopra le sfoglie di pasta: a velo, vanigliato o granulare?

Nella foto sopra le sfrappole realizzate da una zdaura di Pontecchio Marconi


Su di una cosa, però, penso siamo tutti d'accordo: le sfrappole/crostoli/chiacchiere confezionate, che si vendono solitamente nei supermercati e nei centri commerciali, fanno schifo e hanno ragione d'esistere. 

venerdì 15 gennaio 2016

Incubi di provincia


Per chi è cresciuto negli anni 70 e 80 del secolo scorso la firma Bonvi e' sinonimo di fumetto. Lo scrittore modenese, ma trapiantato a Bologna, è stato un grande cartoonist, ideatore e co-autore di alcune delle più geniali ‘strisce a fumetti’ prodotte in Italia ed Europa: Sturmtruppen, Nick Carter, Storie dello Spazio Profondo e Cattivik (quest’ultimo poi verrà portato avanti da Silver).


Ora, a vent’anni esatti dalla sua prematura scomparsa, Bologna lo ricorda con una mostra nella Piazza Coperta della Biblioteca Salaborsa.  La retrospettiva è intitolata Incubi alla Bolognese. Leggende urbane di Bonvi ed è aperta fino al 31 gennaio prossimo.
Ieri, durante la pausa pranzo, sono andato a visitarla insieme a mia moglie e sono rimasto molto colpito. Nella mostra sono esposti in esclusiva alcuni dei più interessanti lavori che fanno parte dal vasto archivio lasciato dal fumettista, in particolare le tavole della serie Incubi di provincia, storie paradossali autoconclusive percorse tutte da una vena surreale e pubblicate in tempi diversi dal 1968 in poi e alcune tavole delle successive Leggende urbane, tra gli ultimi racconti realizzati dall'autore.
Il protagonista di queste brevi graphic novel è quasi sempre Bonvi, o meglio la sua rappresentazione fumettistica, che lo vede biondo e aitante giovanotto alle prese con improbabili avventure ambientate in una città notturna, in cui non si fatica a riconoscere la “sua” Bologna, con i portici, e le notti bolognesi cantate tante volte dall’amico Francesco Guccini, artefice del'introduzione della mostra, come vi evince nella foto sotto.. 



Bonvi nel 1985 fu eletto in Consiglio comunale a Bologna (nell'immagine sottostante il volantino in cui ringraziava a suo modo i cittadini che gli avevano conferito la preferenza) con Renzo Imbeni sindaco. Bonvi si presentò con la Lista Due Torri apparentata al PCI a seguito di un’originale compagna elettorale. Due anni dopo, al termine di una lunga seduta consiliare, si dimise in modo polemico e plateale: «Non voglio offendere nessuno, ma in vita mia non ho mai trascorso tanto tempo insieme ad una tal congrega di imbecilli». Poi uscì dall’aula canticchiando i Righeira: «L’estate sta finendo, e Bonvi se ne va».


Tornando alle storie presenti nella mostra, un altro racconto memorabile tra quelli esposti è Il campo di Liebowitz, una storia di paradossi temporali portati all'estremo disegnata da Bonvi nel 1969. In questo racconto, osservando il volto del barbuto scienziato pazzo si riconoscere Umberto Eco che proprio in quegli anni aveva contribuito non poco in Italia a dare dignità culturale ai fumetti anche nei confronti del mondo accademico.
Il percorso della mostra si chiude con un breve racconto inedito, realizzato da Bonvi nel 1995 sempre per il ciclo Leggende Urbane e ambientato nella Seconda Guerra Mondiale nel centro di Bologna durante un rastrellamento tedesco. In questo caso i tedeschi non sono le Sturmtruppen ma soldati veri. 




A proposito di queste ultime, Bonvi non ha mai raccontato come sono nate. Sono risapute le sue esperienze militari, il suo amore per le armi, l’attrazione per le belle divise. Ma è anche famoso il suo anarchismo, il suo spirito irridente che non gli faceva rispettare nessuno che non meritasse di essere rispettato, la sua totale mancanza di diplomazia, e soprattutto il gusto per la provocazione (esempio sublime ne fu la sua plateale dimissione dal Consiglio Comunale di Bologna). E' altresì probabile che considerasse la società borghese una sorta di esercito in cui gli uomini sono irregimentati come tanti soldatini, mentre il mondo delle Sturmtruppen dovrebbe essere, nelle intenzioni dell’autore, la riproduzione della cosiddetta società civile. E, dovendo scegliere un esercito, è ovvio che Bonvi scelse l’esercito tedesco, il più esercito, l’esercito per eccellenza, con una lingua inventata, una sorta di tedesco maccheronico ottenuto aggiungendo il suffisso 'en' alle parole italiane con cui ha ottenuto effetti comici esilaranti.