martedì 22 maggio 2018

Odiatori virtuali, linguaggio dell'odio e educazione 2.0. Anche a livello locale si può fare qualcosa.

Le idee si possono discutere
Le persone si devono rispettare

Almeno i bulli da marciapiede ci mettono la faccia. Si prendono la briga d'insultare il prossimo vis a vis senza nascondersi dietro uno schermo e dietro una reciproca virtuale assenza data dal fatto che gli haters, di fatto, non conoscono fisicamente la persona che insultano.
E' in questo gap che si nasconde il seme della violenza verbale cui gli odiatori della Rete sono capaci d'arrivare. Il presunto anonimato concesso da internet in questa piazza globale dove tutti si sentono autorizzati a parlare su tutto ha scatenato quella che si sta trasformando in un'emergenza sociale alla quale è necessario, a tutti i livelli, far fronte.
Per comprendere il fenomeno degli haters bisogna capire con chi si ha a che fare. Si tratta di uomini e donne di ogni estrazione sociale e con i lavori più disparati che formano un popolo nel popolo e che hanno trasformando i social network in un luogo d'odio più che libero scambio d'idee. E anche nel nostro piccolo, pure a Sasso Marconi, vi sono alcuni soggetti che per il loro comportamento sono ascrivibili a questa categoria.

A volte, magari in modo inconsapevole, può essere capitato anche a tanti di noi d'alzare i toni e scrivere cose poco piacevoli nei confronti di nostri interlocutori virtuali (a tal proposito, se in passato qualcuno/a si è risentito di certi miei commenti, mi scuso per la mancanza di sensibilità), ma quando parliamo di haters ci riferiamo a persone che, spesso nascoste dietro un nickname (che nelle piccole realtà come quella di Sasso Marconi è facile individuare), scrivono in modo seriale e compulsivo frasi ed epiteti carichi d'odio, volti a umiliare e/o minacciare l'interlocutore. Infatti il campo semantico preferito per veicolare l'odio in Rete è quello legato alla morte, all'insulto gratuito e becero, al razzismo, alla violenza fisica sputata in faccia con cinismo e spietatezza presupponendo una superiorità verso l'interlocutore che, in sintesi, non dovrebbe stare in questo mondo. 
Quello che sfugge all'hater medio è che dietro il profilo insultato ci sia un essere umano in carne e ossa, una persona con una vita vera, una famiglia vera, amici veri e una dignità. La tastiera e i social tolgono umanità agli esseri umani e sputare le proprie sentenze vigliacche e gratuite è quanto mai facile. E' come tirare la pietra e nascondere la mano, fingersi bravi ragazzi, buoni padri di famiglia e professionisti impeccabili per poi trasformarsi in seminatori di cattiveria online. 
Regolamentare il fenomeno punendo i responsabili dell'odio social non è facile. Servirebbero leggi globali difficili da applicare visto che, a seconda delle latitudini, un insulto può essere più o meno pesante e quindi il reato più difficile da stabilire.
Quello che servirebbe, anche a livello locale, è una cultura della civiltà online, insegnando a scuola e nella comunità (a Sasso Marconi negli ultimi mesi si sono tenuti alcuni significativi incontri a riguardo) il rispetto per il prossimo e la dignità delle persone che vivono dall'altra parte della tastiera. Una sorta di educazione civica 2.0 della quale si sente profondamente la mancanza. Da questo punto di vista uno spunto interessante arriva del Manifesto della Comunicazione non Ostile, il cui decalogo è riportato sotto: un impegno di responsabilità condivisa per creare una Rete rispettosa e civile, che ci rappresenti e che ci faccia sentire in un luogo sicuro. Scritto e votato da una community di oltre 300 comunicatori, blogger e influencer, è una carta con 10 princìpi utili a ridefinire lo stile con cui stare in Rete.